Live al “Bar OCCO”

Posted by Annalisa Mazzolari Category: Senza categoria

C’era una volta
Non iniziano così le storie?
Beh in realtà la mia non è propriamente una fiaba, ma avevo in mente di dipingerne una

Mi presento, sono Michelangelo
E anche oggi, come sempre, sono in ritardo per il mio concerto
Non sono un percussionista da molto, ho iniziato a prendere mano alle bacchette da quando il prozio Simone ha deciso di chiudere la propria carriera insieme allo storico gruppo “The Mannerism” lasciandomi la batteria. Poco più di cinque anni.
Mi piace battere il tempo, non la definirei la mia professione ma i fans mi giudicano piuttosto “abile e passionale”. Io ci gioco, semplicemente, ogni tanto ci tinteggio dei quadri.

Sta mattina mi sento particolarmente ispirato
Non so se è dato dal fatto che finalmente in quella catapecchia in cui dormo da solo sia stato aggiustata, dopo diverse settimane, la caldaia e quindi per la prima volta dopo mesi non mi sia svegliato con il cervello congelato. Del resto è il 30 gennaio, senza riscaldamento in casa non si sta troppo bene
Oppure chissà…qualcosa sta cambiando
Cosa? Non ne ho idea, prendetemi per pazzo
Quello che so è che, come detto, sono in ritardo.

Corro il più in fretta possibile per raggiungere i compagni di band, non nascondono di mal sopportare la mia superficialità e cocciutaggine, ma sanno che suono senza presunzione perciò ancora non mi hanno cacciato.
“Merisi, dannazione, ti stiamo aspettando da almeno mezz’ora”
Non dico niente, del resto Gian Lorenzo, bassista, ha tutte le ragioni per rimproverarmi.
Non c’è tempo per il soundcheck, perciò iniziamo subito.
Guardo il pubblico per capire se tenderà ad essere gasato, annoiato o semplicemente attento.
Non sono uno di quei musicisti che si immergono nella musica quando si esibiscono; mi piace osservare intorno e captare a quale ritmo battono i respiri, i bicchieri posati dal bar-man, i movimenti delle mani applaudenti, le parole pronunciate dalle bocche, a volte sbadigli, il rumore della macchina del caffè. Non penso neanche a quello che picchio, seguo semplicemente le battute, i fraseggi, le cesure che riempiono il pub.
Poi non so, alcuni dicono che nel jazz non serva starsi a fare troppe pippe mentali, perciò mi sono sempre limitato a non farlo, come è nella mia natura.

Siamo al terzo pezzo, ancora la situazione non si è fatta calda, ma questo è il brano del mio assolo perciò mi divertirò.
Secondo ritornello, Francesco, il cantante, mi da il segno.
Non so per qual motivo ma per la prima volta ho voglia di chiudere gli occhi; non mi sembra molto presente oggi l’audience perciò non mi perdo a guardarlo
Con polsi sciolti lascio scivolare strati di biacca sul rullante e con scatti materici imprimo le sagome di due giovani.
Sono immobili, seduti l’uno di fronte all’altro
I timpani vengono bucati da un lampo luminoso, lunare, che da sinistra squarcia la camera buia.
L’attenzione dell’uditore è rivolta alle loro sagome, alla direzione dei loro occhi che entrambi bruni fasciano con oscurità malachitica il resto della tela.
Come ho detto inizialmente ho voglia di scrivere; ma non userò pagine o troppe lettere, anzi. Voglio che sia una favola raccontata nella sospensione
E così, smetto di suonare.
Non so cosa stia succedendo all’esterno ma immagino che tutti si stiano guardando per capire cosa stia facendo.
Però una cosa la sento; per un attimo il vociferare si è interrotto.

Fermo il metronomo.
Immobili, senza respiro.
Percorro pennellate oleose
Accompagnate dal solo ritmo tenuto da piedi.
Uno…
due…
tre
Conto fino a giungere a
venti.
Stop.

“Che fai sta sera?” chiede uno dei due giovani
“Niente, puoi accomodarti”.
Lei parla, lui ascolta
È difficile e faticoso per lei raschiare il grumo appiccicato di colle e resina
Che hanno imbrattato il cuore, soffocandolo, impedendole spesso di piangere
Fatica a parlare e non riesce a rivelarsi del tutto, ma qualcosa, rispetto al solito, dice
L’altro rimane in ascolto
La osserva e ne rimane affascinato
D’un tratto canta
E le sillabe violate a entrambi dalla mia prolungata pausa danno vita al dipinto
Elevandosi dalle sedie
I giovani si condensano in uno specchio di gabbie toraciche
Di timpani dormienti
ventuno
riattivati.

E trema la stanza
Trema la luce fioca di un’assonanza
Accarezzo i piatti mentre sfodero una bacchetta
I muscoli battono più velocemente, sempre di più, all’unisono
Si avvicinano all’acme
Paralizzandosi nel mio momento preferito di un’opera d’arte
L’orgasmo, l’eternità, il secondo che dura meno di un secondo che io, su questo dannato palcoscenico
Ho deciso di strappare e di sputare sulla stoffa grezza e schifosa che mi è stata concessa
Ecco,
lì rimarrà indelebile
E non si consumerà nell’abbandono al futuro
Quindi se vi state per caso chiedendo che fine faranno i due amanti in seguito
Mi spiace dirvelo:
non vi fornirò risposta

Io ho semplicemente fatto l’artista

Avvicino la bacchetta al piatto
Ma non lo colpisco.
Mi alzo e apro gli occhi

Tutti mi stanno guardando, componenti della band compresi
Il pubblico non ha capito niente di quello che ho appena eseguito, ovviamente
Mentre Gian Lorenzo, Francesco e Pietro (chitarrista) rimangono a bocca aperta
Perché anche loro erano soliti pietrificare l’infinito dello scorrere quotidiano
E riconobbero così la mia metamorfosi, da semplice e banale esecutore a pittore

Col passare dei live mi sono chiesto quale titolo avrei potuto affibbiare a quel nuovo brano
Perché sì, noi stronzi abbiamo pure la faccia tosta di dare un nome a Dio, oltre che a imprigionarlo.
Ho deciso di dargli i nomi dei giovani che mi sono inventato nella storia
Lidia e Locrio”.
Quando ho proposto la didascalia agli altri mi hanno risposto
“Ah, li hai chiamati come le scale.”
“Si esattamente”

Del resto, lo sapete tutti
Che ogni tipo di musica
Si impara sempre
iniziando dalle scale.